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“Piccoli Reporter” , atto terzo. Il viaggio per raccontare il proprio paese, non poteva che raccogliere anche le testimonianze del passato, da chi direttamente l’ha vissuto.

Vito Bilotta, il centenario custode della memoria del luogo. Foto di Roberta Rigillo.

Ed è ciò che hanno fatto gli alunni partecipanti al progetto dell’Istituto comprensivo "Corrado Alvaro" di Chiaravalle Centrale (Cz), frequentanti il Plesso di San Vito sullo Ionio. Così hanno intervistato l’abitante più longevo e con il contributo di nonne e il ricordo di qualche signora del luogo hanno cercato di descrivere il vestito tradizionale di un tempo.

L’intervista al centenario Vito Bilotta

Arzillo e divertito, nonno Vito Bilotta, classe 1922, cento anni compiuti lo scorso 3 febbraio, concede la sua intervista, intervallata da serenate e stornelli, seduto su una panchina della Villa comunale, dove è solito trascorrere il suo tempo libero in compagnia.

La sua è stata una vita dedita al lavoro. Con la moglie Rosina, compagna di vita per 54 anni, ha cresciuto sei figli.

Che ricordi ci può raccontare della sua vita?
«Ho zappato sempre. Sono stato prigioniero di guerra in Cecoslovacchia, per due anni, con italiani, francesi, tedeschi e russi».

Quale insegnamento ha lasciato l’esperienza della guerra?
«Morti e fame. Questo ha lasciato la guerra!».

Cosa ricorda della gioventù?
«Ho lavorato notte e giorno nella mia vita. Ho iniziato a lavorare, senza sosta, da quando aveva sei anni. Zappavo, ero contadino.

 

Vito Bilotta. «Quando ci si presenta bisogna togliersi il cappello» rammenta. Foto di Bakita De Rose.

A nove anni accudivo quaranta pecore e dieci capre, scalzo e senza scarpe. Non come adesso. I giovani di oggi sono belli vestiti, uno meglio dell’altro, tirati tutti a festa. Nei castagneti, quando era stagione, le spine dei ricci nemmeno penetravano nei piedi tanto che la pelle era spessa e indurita, come se ci fosse una suola. Il mio primo trattore l’ho acquistato nel 1961».

Per arrivare a cento anni c’è un segreto?
«Quale segreto? Non ci sono segreti.  Dio ha voluto così».

I momenti belli della sua vita.
«Da quando sono andati in pensione, in particolare da una decina di anni. I miei figli si prendono cura di me, come un cardellino, vivo circondato dal loro affetto».

Ha vissuto sempre a San Vito?
«Sì, sempre, tranne gli anni della guerra, poi sono stato in Francia un mese, a Milano un mese».

Qual è la sua alimentazione.
«La mia alimentazione? Mangio carne, pasta, tutto. Tutto, tranne le rane».

A Milano le mangiano. (Viene incalzato scherzosamente).
«Ma io non ne voglio!» ribatte e ride, ricordando che la sua è stata  una vita sana, «senza alcolici e fumo».

Il ricordo più bello?
«Quando mi sono sposato.  I ricordi di quando c’era mia moglie sono tutti belli».

Andavate d’accordo?
«Lasciavo passare tutto, tanto – ironizza – non si vince con nessuna donna. Tu puoi essere un avvocato di prima classe, se ti metti a battibeccare con una donna perdi sempre. Non c’è niente da fare».

Vito Bilotta in compagnia, seduto su una delle panchine della Villa comunale. Foto di Laura Tino.

Come si vestivano le donne di un tempo?
«Povere donne, come si vestivano? Avevano la tovaglia di pacchiana sulla testa, la gonna tirata sul dietro e le donne anziane avevano, la “rizzigghjia”, una rete fatta a maglie che tratteneva i capelli».

Era meglio vivere ai tempi di una volta o è meglio adesso?
«Come rispetto era meglio prima. Adesso non ti saluta nessuno, specialmente tra questi giovani. Ce n’è qualcuno, raro come i lupi bianchi, che ci tiene al saluto.

Invece quando eravamo noi piccoli, i genitori ci dicevano quando ci sono due, tre o quattro persone che stanno parlando, passate sempre da dietro, mai davanti e se qualcuno ha bisogno di qualche “vozzariedhu”, recipiente, di acqua, andatelo a riempire e portateglielo».

 

Com’è stato vivere il traguardo dei cento anni?
«Una bellezza. I cento anni sono belli, sono tali quando li vivi bene così come li sto vivendo adesso.

Prima i miei anni non erano tanto belli, perché io ne ho fatti di lavori e fatica per crescere i figli e mandarli a scuola.

Sapevo io quale era il valore della scuola, sapevo io che voleva dire cultura.

Quando ero prigioniero, tutti quelli che erano istruiti, erano impiegati negli uffici, nella “cartoleria”, chi andava da un’altra parte, gli altri andavamo nella miniera del carbone a centinaia di metri sotto terra.

La prima cosa per l’uomo è la cultura. La cosa più bella che esista al mondo.

Quando hai cultura hai tutto, se non altro sai muoverti, sai parlare e sai come gestirti. Questa è la vita!».

 

Bozzetto del vestito tradizionale. Disegno di Noemi Sinisi.

Ecco alcuni degli stornelli e delle strofe che ci ha regalato:

«Margherita Cuzzupita fa lu pane
e non m’invita,
ma na musca ardita ardita
ciaccia l’occhi a Margherita».

«’Ndringuli, ‘ndringuli, tri campani,
ojia è festa e no’ domani;
tri zzitedi a la huntana:
una lava, una strica,
una prega pe’ Santu Vitu
mu di manda nu bedu maritu
jancu, russu e culuritu,
comu la cappa de Santu Vitu».

Nonno Vito Bilotta ha detto che per vivere cent’anni non ci sono segreti, però forse il suo  è la positività con la quale ha guardato all’esistenza, anche nei momenti difficili.

 

Intervista realizzata dagli alunni partecipanti al progetto “Piccoli Reporter di Viaggio” e in particolare da Roberta Rigillo, Bakita Sinisi e Laura Tino, con la supervisione della professoressa Rosalba Macrì, tutor, e della giornalista Maria Patrizia Sanzo, esperta esterna.

 

 

  Una versione del vestito tradizionale. Foto di Clelia Cardamone.

Come si vestivano le donne una volta: l’abito tradizionale da pacchiana

 

Un tempo le donne si vestivano, molto diversamente da oggi. Quello da “pacchiana“ era il costume tipico.

Colori, tessuti  e fogge variavano da luogo a luogo.

Essendo un abito popolare, a San Vito sullo Ionio, non era sfarzoso, ma non mancavano a volte per i giorni di festa pizzi e ricami.

Componevano questo vestito più elementi: “u bustu” (il busto), “a cammisa” (la camicia) che di norma era bianca, “u pannu” una gonna che in genere recava in basso un ricamo e  che compariva sotto “a gunnedhjia” (un’ampia gonna a pieghe, per realizzare la quale ci volevano anche 15 metri di tessuto) di colore nero, tirata e drappeggiata sul dietro, formando una coda, “u fhaddalinu” (un grembiulino indossato sulla gonna) che copriva la pancia e recava una tasca, “a tuvagghjia” (tovaglia che era il copricapo e copriva anche le spalle) ed era di colore bianco, “a saia” di colore marrone che si usava quando faceva più freddo o nei giorni di lavoro al posto della tovaglia che si indossava nei giorni di festa,  per andare a messa o nelle occasioni importanti.

Si usavano prevalentemente colori scuri, come il nero o il blu, ma anche il grigio.

Era molto faticoso lavare il vestito e non era possibile farlo spesso. In genere le donne ne avevano due: uno per adempiere alle fatiche di tutti i giorni e l’altro per cambiarsi. I capelli si portavano raccolti.

Oggi questo abbigliamento è scomparso.

Ricerca realizzata dagli alunni partecipanti al progetto “Piccoli Reporter di Viaggio” e in particolare da Clelia Cardamone e Noemi Sinisi. Si ringraziano per il contributo le signore Antonia Celia, Grazia Giorgio e Maria Notaro.